Nel gennaio del 1971 feci il mio
primo viaggio in quel Paese dell’Africa occidentale che allora, e da tempo
immemorabile, era noto col nome di Dahomey. Visitai in particolare le vecchie
città dei negrieri – Ouidah, Porto Novo, Grand Popo – che
all’epoca della loro massima fortuna esportavano in America più schiavi di
qualsiasi altra parte del continente. Aqueste città
costiere è stato dato il nome collettivo di Piccolo Brasile – retaggio
di generazioni di mulatti e di neri affrancati che “ritornavano” in Africa
nell’Ottocento e si diedero a loro volta al commercio degli schiavi.
A Ouidah i due principali
monumenti sono il Tempio del Pitone e Sigbomey, la casa grande brasiliana,
costruita da un miliardario schiavista, Dom Francisco Felix de Souza. Costui era
approdato alla Costa degli schiavi poco dopo il 1800 , col grado di tenente. Era
in servizio al Forte portoghese, ma dopo aver ispirato e guidato una rivoluzione
di palazzo con la quale depose il re del Dahomey per incoronarne un altro,
cominciò a riorganizzare l’esercito dahomeyano – con i suoi reparti di
amazzoni guerriere – per farne la macchina militare più efficiente
dell’Africa.
Come ricompensa per i servigi
resi, Ghezo, il nuovo sovrano conferì a Dom Francisco de Souza il titolo di cacha,
o viceré, di Ouidah, ed il monopolio della vendita degli schiavi, che il
governo britannico aveva da poco dichiarato illegale.
De Souza possedeva una flotta di
navi negriere, alcune delle quali dotate della nuova bermudiana, che
bordeggiavano più veloci rispetto alle fregate della Squadra dell’Africa
occidentale. Il principe di Joinville, figlio di Luigi Filippo, fece una visita
nel Dahomey e descrisse incredibili ostentazioni di opulenza –
posateria d’argento, sale da gioco, sale da biliardo -, accennando anche al
cacha, che andava in giro con un caffettano sporco ed un’aria da ebete. Verso
la fine della sua vita, però, lo schiavista litigò con il re suo amico, fu
mandato in rovina dai soci brasiliani e fu abbandonato dalla sua nidiata di
figli mulatti. Morì pazzo, e per ordine di Ghezo venne seppellito in una botte
di rum, con un ragazzo ed una ragazza decapitati, sotto il suo letto a colonne
in stile goanese.
Il letto è ancora lì. Ai suoi
piedi c’era una statua di San Francesco d’Assisi – di cui il negriero
portava il nome -, mentre sul comodino erano posati un elefante d’argento,
emblema della famiglia, e una bottiglia mezzo vuota di Gordon’s gin, per il
caso che il vecchio si svegliasse con la gola secca. Una vecchia dalla pelle
nera mi accompagnò nella visita. Era una de Souza anche lei, e parlava in un
francese smozzicato dilungandosi sui tempi in cui i suoi antenati erano ricchi,
famosi e bianchi. Quando tirò indietro le lenzuola, al posto del materasso
venne fuori un cumulo di residui feticisti: sangue, piume, olio di palma e
immagini metalliche di Dagbè, il Pitone sacro.
Era chiaro che avevo trovato una
storia degna di essere raccontata; ma quando sette anni dopo tornai sul posto,
il Dahomey aveva cambiato nome per diventare la Repubblica popolare del Benin.
Il “pensiero” di Kim II Sung andava per la maggiore, e una mattina, con mio
grande stupore, fui arrestato come mercenario. Mi costrinsero
a spogliarmi ed a stare contro un muro, in piedi ed in mutande, sotto un
sole cocente, mentre gli avvoltoi incrociavano sopra la mia testa e la folla
fuori dalla caserma scandiva in coro: “Mort aux mercenaires!”. Dietro
di me un plotone si esercitava con le armi, e il soldato che mi aveva in
consegna tubava melodiosamente: “Ils vont vous tuer, massacrer meme!”.
Dopo questo incidente mi passò
la voglia di proseguire le mie ricerche, benché avessi raccolto materiale
sufficiente per scrivere un
romanzo. Poiché era impossibile scandagliare la mentalità misteriosa dei miei
personaggi, mi sembrava che restasse soltanto una soluzione: raccontare la
storia attraverso una sequenza di immagini cinematografiche; e in questa
direzione fui spinto senza dubbio dai film di Werner Herzog. Mi ricordo di aver
detto: “Se mai questo libro dovesse diventare un film, solo Herzog potrebbe
realizzarlo”. Ma non era che un sogno. Il romanzo, il viceré di Ouidah,
apparve nel 1980, tra le perplessità dei recensori, alcuni dei quali trovarono
insopporartabili le scene di crudeltà e la prosa barocca del libro.
Circa tre anni dopo stavo
viaggiando nell’outback australiano, e un giorno, nel rientrane al
motel di Alice Springs, trovai un biglietto con il quale mi si avvertiva che
Herzog mi aveva cercato. Qualcuno gli aveva fatto leggere uno dei miei libri
mentre girava Fitzcarraldo in Amazzonia. Voleva sapere se m’interessava
collaborare alla sceneggiatura di un nuovo film sugli aborigeni, Dove sognano
le formiche verdi.
Venne ad aspettarmi
all’aeroporto di Melbourne: ascetico, con un paio di logo pantaloni militari e
una maglietta che lasciava vedere il teschio ridente tatuato sulla spalla. Dopo
un paio di minuti la nostra conversazione aveva già preso il volo in varie ed
astruse direzioni.
Si dava il caso che tutt’e due
fossimo alle prese con lo stesso tema, il rapporto degli aborigeni con la loro
terra. Lui aveva le sue idee, io le mie. A mescolarle c’era solo il pericolo,
secondo me, di aumentare la confusione generale. Riuscii comunque a trovargli
una copia malconcia del Viceré di Ouidah. Lui disse: “E’ un testo
che mia piace. Un giorno ne faremo un film”. La frase che gli piaceva più di
tutte me l’aveva suggerita un bambino di otto anni, Grégoire de Souza, il
quale, contemplando una fila di formiche bianche in marcia verso un frigorifero
con la spina staccata, aveva detto: “le frigo existe”.
In seguito rividi Werner una o
due volte. E ogni tanto mi telefonava mentre era a pesca nel Northumberland,
dove un suo cognato era pastore anglicano. Scoprii in lui un compendio di
contraddizioni: tremendamente coriaceo ma vulnerabile, affettuoso e distaccato,
austero e sensuale, piuttosto insofferente delle tensioni della vita quotidiana
ma quanto mai efficiente nelle situazioni di emergenza.
Era l’unica persona con la
quale potessi avere una conversazione da pari a pari su quello che chiamerei
l’aspetto sacramentale del camminare. Lui e io abbiamo in comune la
convinzione che camminare non è semplicemente terapeutico per l’individuo ma
è un’attività poetica che può guarire il mondo dai suoi mali. Werner
condensa le sue idee in un’asserzione perentoria: “Camminare è una virtù,
il turismo è un peccato mortale”. Un esempio straordinario di questa
filosofia è il pellegrinaggio invernale che intraprese per andare a trovare
Lotte Eisner.
Lotte Eisner si occupava di
critica cinematografica ed era stata assistente di Fritz Lang a Berlino, era
emigrata a Parigi all’inizio degli anni Trenta e là aveva contribuita alla
fondazione della Cinémathèque. Passarono molti anni, e un giorno, dopo aver
visto Segni di vita di Werner, scrisse a Lang in California: “Ho visto
il lavoro di un giovano tedesco, un cineasta eccezionale”. Al che Lang
replico: “No, impossibile”.
In breve la Eisner sarebbe
diventata lo spirito guida del nuovo cinema tedesco, elargendo ai giovani
registi la sua immensa esperienza e contribuendo, poiché era ebrea, a
ristabilire la continuità con una grande tradizione cinematografica che era
finita in pezzi con l’avvento di Hitler.
Werner, da quel che mi dicono,
era il beniamino della Eisner. E nel 1974, quando seppe che lei era in fin di
vita, si mise in marcia, in mezzo al ghiaccio ed alla neve, da Monaco a Parigi,
convinto che in qualche modo, a forza di camminare, sarebbe riuscito a
farla guarire. Quando arrivò a destinazione, Lotte Eisner si era
ristabilità; e tirò avanti per altri dieci anni.
Quanto alla versione
cinematografica del Viceré, ebbi la sorpresa di ricevere al telefonata
di un agente di New York che si offriva di acquistare un’opzione sui diritti.
Ebbe la buona grazia di dirmi che il libro non era sensazionale, e la somma che
mi proponeva era francamente irrisoria. Chiamai Werner, e lui, senza la minima
esitazione, disse: “Li comprerò io, i diritti”- e così fece.
Non ci pensai più. Le riprese in
Africa occidentale comportavano difficoltà che sembravano insuperabili. Poi,
durante un viaggio nella Cina occidentale, mi presi una malattia rarissima.
Mentre ero in ospedale, arrivarono fino al mio letto delle voci secondo le quali
il progetto stava andando in porto. Klaus Kinski avrebbe interpretato il
personaggio di Dom Francisco, il negriero. Il titolo sarebbe stato cambiato in Cobra
Verde (il libro è infarcito di riferimenti ai rettili ed al culto dei
rettili). La prima metà del film sarebbe stata girata in Colombia, non in
Brasile. Il posto di Ouidah sarebbe
stato preso da Fort Elmina, sulla costa del Ghana, e come palazzo dei re
dahomeyani, nell’entroterra, avrebbero usato il complesso di fango e mattoni
che Werner stava facendo costruire nel Ghana settentrionale, presso Tamale, in
una prateria punteggiata di baobab.
Vidi il palazzo per la prima
volta un martedì, mentre il mio aereo stava per atterrare. Avrebbe potuto
essere lì fin dall’età del ferro, ma era stato completato solo il sabato
precedente. La ragazza di Werner, Christina, vide l’aereo che si abbassava e
venne a predermi sulla pista di atterraggio.
Colazione all’ombra. Le
cineprese sono in funzione ed il re del Dahomey (interpretato da un vero re)
esce dal suo palazzo in portantina. I cortigiani lo attorniano, strillando a
squarciagola. Quasi tutti hanno in mano l’asin, uno stendardo
sormontato da una testa di animale e ricoperto di lamine d’oro.
Anche il re è pavesato di monili
d’oro, molti dei quali veri, e ha sul capo un’imponente corona dorata. Tutti
gli attori indossano tuniche gialle, arancione o bruno fulvo, che sullo sfondo
del muro di fango fanno un effetto di fosca e sfavillante ricchezza.
Il re flette i bicipiti e fa
schioccare il suo scacciamosche. Tanti parasole di chintz
ondeggiano come meduse sopra la sua testa.
“E’ troppo per me” dice il
medico di scena, che è portoghese. “Non ci posso credere. E’ veramente
troppo”.
Altri registi, di fronte al
problema di ricreare una corte africana dell’Ottocento, ne avrebbero affidato
la soluzione allo scenografo e al costumista, e alla fine si sarebbero ritrovati
con un falso. Werner, noleggiando una vera corte e senza modificare nulla,
tranne qualche orologio di Taiwan, ottiene un’autenticità di tono che
compensa largamente la mancanza di esattezza storica.
Coperto di polvere, con i sandali
di plastica a pezzi e un fazzoletto bagnato intorno alla fronte, Werner corre
come un velocista dalla macchina da presa agli attori e viceversa. Va a sbattere
contro il sacerdote feticista, un tipo androgino che piroetta nella sua
crinolina bianca. Si scusa, gli imprime una spinta, e le piroette ricominciano.
Sono stupito dalla cortesia
germanica d’altri tempi con la quale tratta il cast africano. Senza neppure un
barlume di condiscendenza, prende per il braccio una donna, come se dovesse
farle da cavaliere a un ballo, e le mostra in che modo deve camminare mentre
supera la Grande Porta. Le altre la seguono. Per la ripresa successiva dice:
“Signore, ora voi avete il privilegio di farci sentire come sapete strillare
bene”. Oppure, rivolgendosi al re: “Nana, vorrebbe gentilmente appoggiarsi
all’indietro, jn modo che possiamo ammirare il suo regalissimo volto?”.
I cacciatori sono in piede sulle
catene della Grande Porta: cacciatori veri, membri di una tribù del Nord.
Portano pantaloncini ricavati da striscie di cotone indaco e farsetti coperti di
amuleti. Hanno in spalla faretre piene di frecce, e pelli di zibetto pendono
dalle loro cinture. Gli elmi di vimini sono sormontati da corna di bufalo che,
stagliandosi contro il cielo, il fanno somigliare ai guardiani del Walhalla.
Werner non sa resistere al
vecchio tocco wagneriano. Nella sceneggiatura ha cambiato i nomi di due ragazze
brasiliane in Walkyria e Wandeleide, e si mette a ridere quando gli faccio
osservare che la musica di Wagner non sarebbe potuta arrivare in Brasile nei
primi anni dell’Ottocento.
La prima volta che mi aveva
proposto un sopralluogo nel Ghana ero troppo debole anche per salire le scale.
Avevo risposto: “vuoi ritrovarti con un cadavere tra le braccia?”. Poi
conclusi che potevo affrontare il viaggio, ma a una condizione: se mi portavo
dietro una sedia a rotelle, qualcuno doveva spingerla. La risposta fu: “Una
sedia a rotelle non ti servirà a niente sul terreno dove sto girando. Ti darò
quattro portatori per la tua amaca e uno per il parasole”. Neanche un
moribondo avrebbe saputo resistere ad un invito del genere.
Il re, Sua Altezza Nana Agyefi
Kwame II, Omanhene di Nsein, è un uomo di magnifica prestanza, con il labbro
superiore un po’ sporgente. Quando Werner aveva ventilato l’idea di usare un
re vero al posto di un attore, i suoi colleghi
del Ghana avevano ribattuto che era impensabile. Ma Nana, come la maggior
parte dei re, evidentemente moriva dalla voglia di recitare in un film. Il guaio
era un altro; lui, un re buono, come poteva assumere la parte di un re cattivo e
farsi deporre dal trono? Eppure si rivela un personaggio molto più convincente
del tiranno stereotipato del mio libro: è un uomo che sa di essere condannato e
affronta serenamente il proprio destino. Mentre le sue donne si preparano a
strozzarlo, lui dice in tono di infinita stanchezza: “Ora me ne andrò a fare
un sonnellino”.
Il muro del cortile è rivestito
di teschi, gli architravi e i gradini sono tappezzati di teschi. A colazione
domando a Werner: “Come te la sei cavata con tutti quei teschi? Come ha
reagito la gente del villaggio?”.
“Oh, a loro sono piaciuti. Ci
hanno lavorato con entusiasmo”.
I teschi sono fatti di gesso, non
di plastica. Perciò tendono a scheggiarsi e vanno ridipinti con un sottile
strato di fango e acqua. Questa mistura si chiama swish, e lo
swish-boy – che ha la pelle ed i capelli di un uniforme colore bruno
dorato – porta un mazzo di pennelli infilati tra i riccioli e saltella
allegramente da un punto all’altro per nascondere sotto la vernice le
ammaccature biancastre.
Una folla enorme si è radunata
ai margini del set: abitanti del villaggio, gente di città, gente che lavora
con il Corpo della Pace. Il problema è tenerli buoni mentre si gira, dal
momento che anche qui, come sempre in Africa, è un mercato continuo. Le donne
vendono frittelle ripiene ed i ragazzi vedono dolciumi dai colori ripugnanti. Un
giovane va in giro spacciando una sostanza contenuta in sacchetti di plastica.
Presumo che sia la famosa ganja, ma poi scopro che si tratta di denti
finti.
Le dame di corte continuano a
svignarsela tra una scena e l’altra per mettersi addosso qualcosa di fresco.
Werner chiede: “Non capiscono
che il lavoro deve andare avanti?”.
Il viceré di Ouidah ha
una complicata struttura temporale e si conclude con la figlia del cacha che sul
letto di morte ricorda la scomparsa del padre, avvenuta tanti anni prima.
Sembrava impossibile incorporare questa scena nel film, e Werner non aveva
ancora le ideee chiare sull’epilogo, finchè Kinski non gli ah risolto il
problema.
A Elimina, la settimana prima del
mio arrivo, avevano girato una scena in cui Kinski doveva mettere in acqua una
canoa spingendola sulla spiaggia. Su questo tratto di costa ci sono due linee di
frangenti, con una striscia di acqua bianca nel mezzo. Al di là della seconda
linea ci sono gli squali, ma fare il bagno è sempre pericoloso per via della
risacca. Un maroso fuori programma investì Kinski di sorpresa, catapultandolo
sulla spiagga. Folgorato dall’idea che in quel momento stava interpretando la
scena finale, si lasciò trascinare all’indietro tra le onde, e poi
risospingere più volte sulla sabbia.
Nel raccontare l’episodio
Werner pare quasi sopraffatto dalla gratitudine (in seguito ci furono delle
terribili scenata in Colombia per le quali la gratitudine sarebbe stata fuori
luogo). “Questo splendido essere umano” dice. Oppure: “Questa eccezionale
creatura. Ho cercato di immaginare il film senza Kinski. Impossibile. Era
inevitabile che fosse lui a interpretarlo”.
Kinski – sarebbe lui il primo
ad ammetterlo – non è un tipo facile. Dovunque vada, si lascia dietro una
scia di risentimento che cova sotto la cenere. La tensione, fatta di amore-odio,
tra lui e Werner – che ha assunto proporzioni leggendarie nel pettegolezzo
cinematografico – è un po’ esagerata. Ma in pubblico fanno davvero un gran
baccano.
Quando la sua presenza non è
richiesta sul set, Kinski si ritira nel suo bungalow, dorme, legge, cucina e
scaccia chiunque bussa alla porta, tranne Werner.
Nel pomeriggio Kinski arriva al
palazzo: una adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di
capelli gialli. Non corrisponde esattamente all’idea che ho di uno schiavista
brasiliano, ma lasciamo correre. Nella scena che sta per recitare, sotto uno
strato di cerone nero e tutto legato come un maiale pronto per lo spiedo, deve
accucciarsi e sopportare gli insulti del re: “Perché hai mandato
trecentocinquantamila navi da guerra davanti alle mie spiagge?”. “Perché
hai ucciso il mio levriero?”.
Ascolto per caso Kinski che
scherza col fotografo di scena e mi presento. Gli occhi artici si girano verso
di me: “Oh, lei è quello che ha scritto il libro? Mi è piaciuto, quel libro.
Peccato che abbiamo dovuto fare dei cambiamenti, ma credo che quello che stiamo
facendo abbia un gran ritmo”.
S’infila una giubba azzurra da
ufficiale napoleonico – autentica ma tarmata -, adorna di alamari d’argento.
“Forse” aggiunge voltandosi
verso di me “il film gioverà al libro”.
“Forse”.
Vado a sedermi con la segretaria
di produzione.
“Sembra di ottimo umore” le
dico.
“Perché ha fatto andare in
bestia tutti quanti”.
Uno dei vezzi di Kinski è quello
di insistere per far vedere a tutti come andrebbe inquadrata ogni sequenza. Ne
è nato un tremendo scontro con l’operatore scritturato in origine (Thomas
Mauch, ndt), che se n’è andato da Elmina offessissimo. Lo ha
sostituito Viktor Ruzicka, che è dovuto venire da Praga quasi senza preavviso.
Gioviale ed imperturbabile, sa esattamente per che verso prendere il
protagonista, quando essere indulgente e quando usare la fermezza.
“Ehi, Viktor”, urla Kinski
“avete ancora carta igienica in Cecoslovacchia? Polanski mi ha detto che a
Varsavia…”.
“Certo che abbiamo la carta
igienica”.
“Okay?” interrompe Werner.
“Possiamo girare adesso?”.
“Siamo qui per questo”
ribatte Kinski.
Il truccatore arriva e gli
picchietta altro nero sulla faccia. Werner, intanto, si sta organizzando la
folla.
“Adesso guardate tutti l’uomo
bianco!” grida.
“Bianco e nero” dice Kinski.
Giovedì mattina. Non succede
niente. Nana è in ritardo per la scena della deposizione. Che non abbia tanta
voglia di essere deposto? Ma alla fine arriva e attraversa a grandi passi il
cortile con una veste kenti arancione e porpora. Piega la testa verso di
me e dice: “Buongiorno, inglese!”. Ha perso tempo per controllare che tutti
i suoi cortigiani fossero ben sistemati sul pullman.
Un secondo re, Nana di Elmina, ha
anche lui una parte nel film e arriva all’improvviso, senza farsi annunciare,
per vedere come vanno le cose. Sospetto che voglia aggiungere un’appendice
alla sua partecipazione. È tutto azzimato in una tunica cremisi cucita con
nastro di raso violetto. Assistiamo insieme alla scena della deposizione. Si
lamenta per la febbre.
A Elmina, secondo la
sceneggiatura, ha dovuto umiliarsi davanti a Dom Francisco e fargli vento con
flabello. Nana non ha mai fatto vento a nessuno in vita sua. Per lui è stato un
trauma.
“Sono completamente
sconvolto” diceva. “ma lo faccio per il bene del film”.
Ha anche letto Il viceré di
Ouidah.
“Bè, signore” mi dice “lei
ha scritto un libro molto tortuoso”.
“Lei vive in Inghilterra?”,
mi domanda Kinski.
“Non molto”.
“Io mi rifiuto persino di
cambiare aereo in Inghilterra”.
Alla periferia del villaggio è
stato avvistato un uomo con una quarantina di cani al guinzaglio. Tutti i cani
camminano fieri davanti a lui. L’uomo va in giro per i villaggi facendo
incetta di cani. Poi li vende al Nord, dove i cani li mangiano.
Le case del villaggio sono fatte
di fango, con tetti conici di paglia. Su un’imposta hanno scritto col gesso la
parola SCEMO.
Viktor ordina che l’imposta
venga chiusa. Dall’interno arriva lo strepitio di un’anitra muschiata.
Si chiama picorna un virus che
attacca uomini e animali, e quando si entra in automobile a Tamale c’è un
cartello che dice: HAI CALDO? VIENI AL PICORNA ENTERTRAINMENT CENTRE PER UN
BIRRA FREDDA.
Lì accanto c’è un altro bara,
meno frequentato: AYATOLLAH DRINKS BAR NON SI FA CREDITO.
Quello che l’occhio vede, la
mano vuole toccarlo. Nel Ghana l’unità monetaria più alta vale circa un
dollaro. Per fare i più semplici pagamenti bisogna andare in giro con una
sporta piena di banconote. La nostra cassiera è costernata per il numero sempre
crescente di mani protese.
Nana di Elmina, sempre pronto
alle prediche moralistiche, osserva: “E’ come allevare maiali. Certi maiali
non finirebbero mai di mangiare. Altri sono maiali perbene. Non si può mai
dire”.
L’ordine del giorno comprende
la seguente voce: “Attenzione – duecentocinquanta amazzoni arrivano stanotte
da Accra; preparare alloggi nella caserma”.
Le amazzoni (Werner le chiama
amazones) sono belle ragazze di Accra con nomi come Eunice, Beatrice, Patience,
Primrose, Maud e Rhoda. A Elmina ce n’erano settecento, addestrate all’uso
del machete da uno stunt director italiano con una faccia leonina, Benito
Stefanelli. Si sono comportate malissimo. Hanno scandalizzato gli abitanti del
villaggio intonando canzoni di incredibile oscenità. Sono scese in sciopero per
farsi aumentare la paga, ed è mancato poco che inscenassero una sommossa.
Alle otto e mezzo del mattino i
loro pullman arrivano al palazzo. Sentiamo urla e strilli venire dall’altra
parte del muro.
“la situazione potrebbe
sfuggirci di mano” dice Werner con voce cupa. “Qualcuno dovrà pregare per
noi”,
le amazzoni gironzolano per il
cortile e poi vanno a vestirsi, o piuttosto a spogliarsi, per girare le loro
scene in costume da amazzoni: un cache-sexe giallo, il seno imbrattato di
giallo e, per elmo, una zucca scarlatta su cui sono sparse conchiglie di ciprea.
In più, un machete, lo scudo e la lancia. Le lance hanno la punta smussata, ma
possono sempre cavarti un occhio.
In attesa – sul set di un film
non si fa che aspettare – in attesa che succeda qualcosa mi siedo con le
ragazze e colgo al volo brandelli di conversazione.
“Togliti il reggiseno, Jemimah!”.
“Come fai a metterti con quel
vigliacchio?”.
“Già, ma che ci vuoi fare?
E’ un essere umano”.
“E’ uno che se ne sta per
conto suo. Non ha neanche una moglie”.
“Rhoda, ti assicuro che in
Europa le donne non fanno quelle cose!”.
La giornata è insopportabilmente
calda – circa quarantacinque gradi – e le amazzoni perdono presto la loro
freschezza. Devono girare uno spettacolare assalto al palazzo. Ci sediamo sotto
il portico e seguiamo la prova. A un tratto le ragazze si avventano verso di
noi, urlando ed agitando le lance, con Werner in testa, a piedi nudi. “Avanti,
ragazze!” urla. “Più veloci! Più veloci!”.
Ceniamo in un bungalow dipinto di
bianco, chiamato il Cassino, e stiamo bevendo l’ennesima birra della serata
quando arrivano le amazzoni. C’è stata qualche discussione riguardo al loro
compenso. Sono già state pagate più di quanto stabiliva il contratto, ma non
sono ancora soddisfatte. Istigate da Kinski – il quale proclama: “Io sto con
le ragazze!”, circondando il Cassino e fanno un baccano infernale. Tiriamo le
tende, ma il vento le riapre. Dietro le persiano spuntano delle facce:
“Morirete”, “Credete di poter fregare le donne nere. Ve ne accorgerete”.
Werner cammina su e giù per la
stanza in uno stato di estrema agitazione. Di solito affida tutte le trattative
di questo genere ai subalterni, e adesso gli hanno combinato un pasticcio. Il
medico portoghese perde la testa. “Io sono africano!” urla (è nato in
Mozambico). “So quanto è grave questa stronzata”. Poi, un po’ più calmo,
aggiunge sentenziosamente: “Paese che vai, usanza che trovi”.
Fuori, le amazzoni prendono a
calci e spallate il bungalow, che potrebbe crollare se unissero le loro forze.
Ma si direbbe che non facciano sul serio. Invece riescono a irrompere
all’interno. Volano bicchieri. Una ragazza si becca un calcio, e l’uomo che
giel’ha sferrato si fa rosso e bianco di rabbia. Non così Werner, che
torreggia sopra l’assemblea e dichiara: “Il mio senso della giustizia mi
dice…” – al che l’uomo del calcio urla: “Vorrai dire il tuo senso
dell’idiozia!”.
Si odono discorsi sinistri,
qualcuno vorrebbe far intervenire l’esercito. Ma Werner – un monumento di
equilibrio in un cast che è un campionario di crisi di nervi – sgattaiola
fuori da una porta secondaria e affronta le ragazze. La sua invocazione abituale
– “Ragazze! Ragazze!” – ha il potere di placare il tumulto. Lui e la
loro portavoce, Salome, arrivano subito ad un compromesso. Le ragazze tornano ai
loro pullman ridendo felici.
Werner torna dentro esausto e mi
dice: “Questo era solo un arabesco”.
Il giorno dopo. Domenica. Giorno
di riposo. La porta del Casino è coperta di impronte di fango rosso, lasciate
dai piedi. Alla caserma si sta svolgendo un altro dramma.
A ogni amazzone è stato
consegnato, come parte dell’equipaggiamento, un materassino di gommapiuma, ma
i soldati, dopo averli divisi con le ragazze per tutta la notte, al mattino se
la svignano portandoseli via.
“E’ disgustoso” dice Kinski
a Werner. “Fa qualcosa”.
Werner e io arriviamo in
automobile alla caserma, un’accozzaglia di traballanti costruzioni di legno,
dove lui deve di nuovo disinnescare una situazione esplosiva. Le ragazze si
accalcano impazienti intorno a lui. Con un gesto da ierofane, Werner urla:
“Ragazze! Ragazze! Vi voglio bene”. Una voce stridula risponde: “Anche noi
te ne vogliamo!”.
Lui si scusa, addolorato, per la
scenata della sera prima. Si scusa per i materassi rubati. “Se potessi tirar
fuori la giustizia da una mia costola, ve la darei”. Ma, ahimè non c’è
niente da fare.
Poi è il turno dei conducenti
dei pullmann che trasportano le amazzoni. Insistono per avere un supplemento di
paga, sostenendo che hanno perso una giornata di lavoro per via dell’incidente
dei materassi.
“andiamo via di qui” dice
Werner. “Presto!”.
Martedì. C’è ancora una scena
da girare in Africa, una scena notturna in cui il futuro re Ghezo libera il
brasiliano dalla prigione. Mi piacerebbe poter rimanere, ma l’aereo per Londra
parte da Accra in serata. E poi sono latore di messaggi da trasmettere a Monaco
di Baviera: riguardano i problemi logistici connessi col trasporto della troupe
– più una tonnellata di attrezzatura – da Tamale a Bogotà via Madrid.
Qualche settimana dopo, su un
altro aereo, sono seduto accanto a un avvocato di New York. Un suo cliente, un
grosso nome di Hollywood, doveva fare un film con Werner ma poi ha avuto paura e
si è tirato indietro.
“Herzog?” mi dice “Non
s’imbarchi ma in un viaggio con lui”.
“Bè, io mi sono imbarcato”.
Francisco
prigioniero del re
Il palazzo di Abomey aveva poche porte di ingresso che si
aprivano nelle sue alte mura di fango e sangue. Distava dalla spiaggia
ventimilacinquecentodue pali di bambù. Nella parte più interna abitavano il
re, i suoi eunuchi e tremila donne armate.
Le guardie sistemarono il prigioniero in una bassa
costruzione dal tetto di paglia. Quando riprese le forze, lo condussero a fare
un giro in città, ma il rullo dei tamburi, la vista dei corpi decapitati e il
puzzo di putrefazione lo stordirono al punto che fu costretto a rimettersi a
letto.
Qualche volta il re passava sulle mura del palazzo, ma
tutto ciò che da Silva riusciva a vedere era un parasole bianco adornato di
ossi di mandibola. Chiese: “Quando potrò vedere il re?” e la guardia abbassò
le palpebre e si passò l’indice sul pomo d’Adamo.
Poi una mattina, al canto del gallo, arrivarono tre eunuchi
e gli dissero di vestirsi. Senza quasi osare guardarsi intorno, seguì le loro
fruscianti vesti arancioni attraverso cortili gremiti di negri urlanti; ovunque
architetture di crani bianchi soverchiavano per numero le teste dei vivi.
Giunsero alla presenza del re, che stava mollemente
sdraiato su un cuscino di velluto rosso, attorniato da un gruppo di donne nude
che gli facevano vento con piume di struzzo e gli asciugavano il sudore dalla
fronte.
Era alto e muscoloso, con occhi arrossati, gesti automatici
e l’espressione bonaria del massacratore consumato. Il sole nascente gli
illuminava il petto. Le sue unghie si incurvavano come penne di gallo. Portava
una fascia viola intorno ai fianchi e sandali di fili d’oro intrecciati. Ai
suoi piedi erano posate le teste di un ragazzo e di una ragazza, mandate lì
mezz’ora prima per annunciare ai Re Morti che il loro discendente si era
svegliato. Guardò torvo il brasiliano e sputò.
Quando sollevò il suo regale bastone, i sudditi, prostrati
a terra, si miserò strofinare il naso nel sudiciume urlando: “Dada! Respira
per me! Dada! Derubami! Dada! Dada! Spezzami! Prendimi! La mai testa è tua!”.
Un giullare di corte strisciò in avanti, puntò il dito
contro da Silva e disse con voce cupa: “L’uccello che lascia il suo nido non
può portarsi via le uova”.
Un nano albino saltò su, tutto eccitato fece un gran
saluto, strillò qualcosa nella lingua dell’uomo bianco e terminò con un
verso gutturale come se lo stessero strangolando.
Il boia accarezzò con le dita la lama del suo coltello, ma
il prigioniero si guardò bene dal mostrare paura, e riuscì a strappare alla
bocca del monarca un ebete sorriso macchiato di tabacco.
Alla fine dell’udienza era diventato l’amico del re.
Non ottenne la liberà, ma soltanto che una quantità di
persone si affollasse attorno al suo alloggio, per vederlo, toccarlo, implorare
medicamenti e dargli da mangiare. Vennero a fargli visita ministri, principi, un
uomo con un tumore grosso come una pagnotta, e una donna che gli portava sempre
della frutta e diceva: “Sono tua madre”.
Trovò prigionieri portoghesi e annotò i loro nomi: Luis
Lisboa ... Antonio Pires ... Roque
Dias de Jordao ... ma quando tentò di farli liberare, il re gli disse :
“Tu sei mio amico. Non parlare dei miei nemici”.
Il re disse che lo amava “troppo” e lo fece assistere,
al suo fianco, ad ogni cerimonia importante. Così Francisco Manoel vide il
Sacrificio del Cavalloo e il Palco dei Sacrifici, dove le vittime, dopo essere
state legate e messe dentro a dei cesti, venivano fatte rotolare verso i
carnefici. Vide gli spiriti dei Re Morti muoversi col passo lento e
disarticolato degli scheletri e, molto più pittoresche e vivaci, le Regine
Morte; gli “Uccelli” del re che cinguettavano ed erano vestiti di bianco e i
Fumatori della Sacra Pipa, dall’aspetto malaticcio.
Spesso il re si metteva a lui stesso a danzare, facendo
ruotare le sua veste e intrecciando passi introno ai crani delle sue vittime
favorite. Oppure si diveriva a insegnare ai ragazzini come tagliare le teste con l’ascia, e quando combinavano un
qualche pasticcio gridava: “Non così, cretini! Fate come se doveste spaccare
la legna!”.
Poi, dando una gomitata nelle costole del suo amico,
tuonava: “Ah! Uomo bianco! Bevo anche dalla tua testa!”.
I cortigiani ridacchiavano di quelle buffonate, e Francisco
Manoel si domandava come la farsa sarebbe finita.
Non era solo, però, perchè c’era un giovane che lo
seguiva ovunque andasse.
Aveva una fronte alta e spaziosa, sopracciglia arcuate e
lucenti e denti brillanti. Un
anello di ferro era stretto in alto intorno al suo braccio e una tunica rosa,
aperta sui fianchi, lasciava intravederee parte della schiena e del petto. Un
coltello da cacciatore gli pendeva dalla cintura.
Unico difetto: un leggero strabismo dell’occhio destro,
velato e iniettato di sangue.
Sembrava che volesse trasmettergli un messaggio ma quando
Francisco Manoel contraccambiavaa il suo sorriso, la faccia del giovane assumeva
di colpo una espressione vacua ed idiota.
Una guardia disse che era Kankpé, il fratellastro pazzo
del re.
Una guardia più amica sussurrò che Kankpé faceva solo
finta di essere pazzo; che era lui il re legittimo, e aspettava solo un segno
premonitore per provocare la ribellione.
In aprile, quando nei campi di patate dolci crescevano i
rossi cappucci del pan di serpe, nuove dicerie si sparsero per la città.
Gli indovini, che prevedevano il futuro esaminando i tuorli
d’uovo e la superficie dell’acque, predicevano una catastrofe o un
mutamento. A Sado una donna partorì un bambino che era per metà leopardo. La
guerra contro gli Egba aveva fruttato in tutto cinque prigionieri e la condotta
del re aveva superato perfino i
limiti di tolleranza dei dahomeyani.
Aveva legato i suoi due primi ministri, Mingan e Meu, e
sputato del rum sulle loro facce. Aveva castrato un soldato perchè aveva i
fianchi troppo larghi. I suoi figliu avevano profanato una tomba reale, e lui
aveva aperto la pancia a una delle sue mogli per dimostrare che il feto era un
maschio.
Durante un’udienza mattutina un vecchio si fece largo tra
la folla, e alzò un dito verso il trono. Aveva guance incavate, il petto
imbrattato di pasta bianca e stracci bianchi gli pendevano dai fianchi.
“Chi sei?” chiese il re.
“Non riconosci Adjaholanhoum?” rispose il vecchio.
“Fui io che obbedendo ai tuoi ordini avvelenai tuo padre. Ora i Re Morti mi
hanno messo in prigione per averti aiutato nei tuoi delitti”.
Il re rabbrividì e ordinò che fosse portato del cibo per
lo straniero. Ma il vecchio si gettò la pasta di grano dietro la spalla
sinistra e disse: “I Morti mangiano così”. Poi si versò il vino di palma
dietro la spalla destra: “I Morti bevono così”.
La folla si fece da parte , il vecchio si allontanò nella
bruma e nessuno potè trovare traccia dei suoi passi.
Durante tutto quel mese le iene si aggirarono di notte
nelle strade e di giorno la città restò immersa nel silenzio. Per un’intera
stagione il re si era trastullatoo col suo prigioniero, e ora si era stancato di
quel giocattolo. E il prigioniero guardava alla morte come a una faccia che
prende forma in uno specchio: non oppose resistenza quando lo trascinarono fuori
e lo gettarono a terra davanti al trono.
Il re si levò in pied, alto sopra di lui:
la sua ombra disegnava una oscura striscia diagonale.
“Perchè il Portogallo ha mandato trecentotrentacinque
navi per attaccare Ouidah?”.
“Non le ha mandate”.
“Perchè hai ucciso il mio levriero?”.
Aprì la bocca per parlare, ma le guardie gliela tapparono
con un legno.
“E così tu credi di essere un uomo bianco?” sogghignò
il re, e diede ordine di riportarlo in prigione.
Le guardie gli rasarono la testa e lo immersero in una
tinozza di indaco.
Per essere sicuri che la tintura penetrasse in ogni poro,
lo costrinsero a tener sotto anche la testa e a respirare attraverso una
cannuccia. In un solo meso lo immersero cinque volte, ma ogni volta, quando lo
strofinarono, riappariva il chiaro della pelle, e così lo rimettevano a bagno.
Poichè non esistevano precedenti di uomini bianchi
condannati alla decapitazione e poichè il bianco era il colore della morte,
vollero farlo morire lasciandolo senza acqua, ombra nè cibo.
Le sue gambe si ridussero pelle e ossa. Il ventre si tese
come un tamburo. Sulla pelle comparvero pustole acquose: da qualunque parte si
girasse era un tormento. La notte, millepiedi fosforescenti gli strisciavano
sopra e gli avvoltoi lo ricoprivano dei loro acidi escrementi mentre si
trascinavano lungo il muro cercando dove mettersi, sbattendo le ali con rumore
di seta che si strappa.
Nei suoi incubi si vedeva attraversare una fila di stanze
senza aria e in ogni stanza c’era la sua testa, brulicante di mosche, adagiata
su un piatto d’argento: sollevava le palpebre con le dita e un lampo di luce
verde faceva levare in volo una nuvola ronzante, finchè le mosche cadevano, ping
... pong ..., esplodendo in nuvole di fumo.
Vide qualche volta il principi Kankpè, in piedi di fronte
a lui, come affrescato sulla parete, che sorrideva mostrando la fessura tra i
due incisivi.
Ricordi del Brasile scorrevano in continuazione davanti ai
suoi occhi: la misera casupola di fango, la gamba penzolante di sua madre morta,
i pianti della sua bambina, i penitenti sul Monte Santo, le ricchezze dei
Coutinho – e mentre enumerava le avversità che lo avevano portato a quella
fine, pieno di compassione per se stesso, faceva voto di farsi frate se mai
fosse riuscito a tirarsi fuori dall’Africa.
Oppure scoppiava in una risata isterica al pensiero di come
fosse assurdo morire in quell’ossario, dove i morti erano più vivi dei vivi.
E quando la morte arrivò, arrivò in silenzio, di notte.
Sciolse le sue catene e sollevandolo delicatamente lo portò su per una scala,
su oltre il muro della prigione, e lo adagiò in basso su dei cuscini.
Kankpè aveva rubato la lettiga con la cesta di vimini
intrecciati usata per il trasporto delle
conchiglie che servivano per effettuare il censimento annuale. Nessuno, neppure
se era delal dogana, aveva il permesso di guardarci dentro. I portatori si
diressero verso nord-ovest, e prima che venisse dato l’allarme, avevano già
passato la frontiera.
Francisco Manoel si destà dal suo sonno drogata e lasciò
errare lo sguardo sulle pareti sporche di pula di un capanno di fango. Un gallo
cantò. Udì sommesse risa di donne e, dalla vallle, il trillo di un flauto
diffondersi nell’aria.
Sulla porta apparve un’ombra: un uomo coi capelli grigi
venne avanti con una zucca colma di latte appena munto. La schiuma gli si attaccò
alla barba; la pulì via col braccio e riprese a dormire.
Più tardi lo stesso uomo gli rivelò che l’identità del
suo salvatore, Kankpé, che l’avrebbe raggiunto appena possibile nel villaggio
dove Franciso Manoel doveva aspettarlo.
Andò a passeggiare per le aride, ondulate colline dove
pascolava il bestiame dalle lunghe corne. Lontano, verso ovest, un rilievo del
terreno si colorava all’orizzonte di rilessi viola e blu. La campagna gli
ricordava il Sertao, ma qui gli alberi spinosi avevano la corteccia arancione e
le spine lunghe e bianche, e sembravano brillare.
Una mattina, al risveglio, gli giunse la notizia che Kankpé
stava cacciando nella vicina boscaglia. Camminò col servo fino al tramonto,
finchè giunsero dove c’era una zucca piena d’acqua, appoggiata alle radici
di un albero.
Ancora prima di vederlo, lo sentirono farsi largoo
nell’erba alta. Un’antilope uccisa da poco faceva apparire più ampio il
trapezio del suo torso; un pezzo di pelle marrone intorno ai fianchi metteva in
risalto la sua nudità.
Kankpè spellò e pulì l’animale nella penombra,
gettando il grasso al cane; sotterrò le interiora perchè l’anima potesse
riposare in pace; poi mangiarono la carne, arrostita su una griglia di rami
verdi.
Un leopardo fece udire il suo ringhio nella boscaglia.
Kankpé strisciò fino al limite della radura e rispose con lo stesso verso, e
per un attimo videro il muso maculato del leopardo brillare alla luce del fuoco.
“Mio padre” disse, e si buttò giù a dormire.
Per cinque giorni andarono a caccia insieme, cercando di
scoprire tra loro delle affinità che abbattessero le barriere di colore e di
costume.
Kankpé gli mostrò le tracce di varie specie di antilopi:
gazzelle, kob, cervi d’acque, guib e bubali. Si avvicinava ai brancghi senza
far rumore, ora correndo, ora strisciando, ora immobilizzandosi di colpo se un
animale alzava il muso per fiutare il vento. Si tuffava nella palude per
prendere un facocero, o si arrampicava su un albero per sfuggire ad un bufalo.
Non scagliava mai la sua lancia se non era sicuro di colpire il bersaglio.
Disprezzava il fucile, arma dei vigliacchi.
La notte del quinto giorno strinsero un patto di sangue:
la luna, al suo ultimo quarto, macchiava di luce il tronco
colorato di un baobab. Da qualche parte un bucero chiudeva rumorosamente il suo
gran becco, e poco lontano uno sciacallo ululava.
I due uomini si inginocchiavano, un di fronte all’altro,
nudi come neonati, stringendo una coscia contro l’altra: i genitali non
dovevano toccare terra, altrimenti non sarebbe stato valido.
La luna luccicava sulle cosce e sui bicipiti neri; la pella
bianca, invece, assorbe uniformemente la luce della luna.
Kankpé frugò in una borsa di cuoio e ne trasse una coppa
ricavata da un teschio. La sistemò nello spazio fra le loro rotule e vi mescolò
gli ingredienti del giuramento: ceneri, fagioli, midollo di baobab, una
“pietra di tuono”, un proiettile estratto da un cadavere, e la testa ridotta
in polvere di una vipera cornuta.
Riempì a metà il teschio di acqua. Poi si fecero a
vicenda un taglio in un dito e stettero a guardar colare il sangue scuro.
Bevvero a turno, facendo scorrere la lingua sul proiettile
e sulla pietra.
Kankpé stralunò gli occhi, borbottando maledizioni: “A
dà la..., A dà la...”: i fratelli di sange vivono insieme ed insieme
devono morire.
Francisco Manoel bevve con l’animo felice di chi è
sfuggito a una morte certa. Gli ci vollero altri trent’anni per rendersi conto
dell’entità del suo debito.